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Cultura
Precisazioni ed aggiunte a Girolamo De Magistro
di Achille della Ragione
Girolamo dello Mastro (De Magistro) è pittore collocabile per affinità stilistiche tra i collaboratori o quanto meno tra i seguaci di Stanzione, grazie al Nappi, si è scoperta la sua data di nascita, 1612 e la data di esecuzione del suo San Michele (fig.2), 1650.

Egli fino a pochi anni fa ci era noto unicamente per la sua firma: «Hyeronimus De Magistro» reperita la prima volta dal Causa tra vecchie incrostazioni sotto la S. Lucia (fig.2) della chiesa di Santa Maria della Sanità.



In seguito è stata ritrovata, in occasione di un restauro, un’altra sua opera firmata: il San Michele che schiaccia i diavoli ribelli della chiesa del Purgatorio ad Arco, tradizionalmente assegnato all’altrettanto misteriosa e sfuggente Annella De Rosa.


La critica ha cercato di avvicinare la Santa Lucia al gruppo radunato attorno all’Ultima cena della parrocchiale di Fontanarosa per le analogie molto evidenti tra il volto del Cristo e quello della santa, come pure il Bologna ha segnalato diversi quadri da confrontare, anche se taluni manifestano, per la loro disomogeneità, delle perplessità, esternate in una pubblicazione dalla Vega De Martini.

Eseguito nel corso del 1994, il restauro del San Michele Arcangelo posto nella prima cappella a sinistra della chiesa di Purgatorio ad Arco, ha permesso di assegnare il dipinto al poco noto pittore Girolamo De Magistro, del quale è stata ritrovata la firma nascosta da pesanti ridipinture ed occultata dalla cornice spessa.

Questa scoperta ha consentito non solo di correggere la tradizionale attribuzione, trasmessa dal Galante, ad Annella De Rosa, sorella di Pacecco e figliastra di Filippo Vitale, ma anche e sopratutto di aggiungere una seconda opera certa all'esiguo catalogo del pittore, il quale non risulta mai citato dalle fonti storiografiche.

Nel 1957, il nome di De Magistro fu reso noto per la prima volta dal compianto Raffaele Causa, che lesse la sua firma sulla 'Santa Lucia' che si conserva nel transetto di sinistra della Chiesa di Santa Maria alla Sanità, opera precedentemente attribuita a Massimo Stanzione dal Dalbono e a Bernardo Cavallino dall'Ortolani.

Raffaele Causa inserì il pittore nell'ambito di Pacecco de Rosa e di Filippo Vitale, ponendo in evidenza la necessità di ricercare e di ricostruire personalità di cui si è perso anche il nome.

ù Significativo è il ritrovamento di diversi documenti da parte dell'archivista e studioso Eduardo Nappi sulla chiesa di Purgatorio ad Arco (in La chiesa delle Anime del Purgatorio nei sec. XVII-XVIII, in 'Ricerche sul '600 napoletano', Napoli 1987 e in 'Catalogo delle pubblicazioni edite dal 1883-1990 riguardanti le opere di architetti, pittori, scultori, marmorai etc. pagate tramite antichi banchi pubblici napoletani', in 'Ricerche sul '600 napoletano', Milano 1992).

Il primo significativo ritrovamento riguarda un 'processetto matrimoniale' del 1654, che ci consente di risalire all'anno di nascita del pittore De Magistro, il 1612, e di apprendere anche il suo vero nome, Geronimo Dello Mastro, latinizzato secondo i costumi dell'epoca; gli altri documenti si riferiscono in particolare all'esecuzione di due dipinti per il Purgatorio ad Arco, pagati 50 ducati nel 1650, il 'San Michele Arcangelo' appunto ed una 'Madonna con il Crocifisso' di cui si è persa traccia.

Nell'ambito culturale classicista d'estrazione bolognese e romana del maturo Pacecco De Rosa, di cui forse il De Magistro fu allievo, va inserito il dipinto raffigurante San Michele per i tono cromatici lucenti e per l'astratta tipizzazione, per la cura del dettaglio elegante della veste luminosa e serica e per gli atteggiamenti di grazia manierata di reniana memoria.

E proprio ad una nota opera di Guido Reni, il San Michele Arcangelo, dipinto su seta per la chiesa dei Padri Cappuccini di Santa Maria della Concezione a Roma nel 1635, pare ispirarsi il De Magistro, dipinto che poté conoscere senza muoversi da Napoli, perché ne fu ricavata una incisione dal De Rossi fin dal 1636.

Le operazioni di restauro, hanno svelato al di sotto di una densa patina bruna, fatta di polveri, grassi, vernici ingiallite, particolari illeggibili, quali la coda e le mani artigliate del demonio ed i brani di cielo di un bel azzurro intenso.

I suoi due dipinti fino ad ora assegnati con certezza posseggono una validità di impianto ed una accuratezza pittorica che rivelano la mano di un maestro di estrazione solida ed antica, per cui quanto prima, se si riuscirà a reperire qualche altro quadro firmato, si potrà registrare più a fuoco la personalità di questo ancora misterioso pittore, che potrà entrare così a pieno titolo nella storia del secolo d’oro della pittura napoletana. 


Al suo pennello, a nostro parere, oltre alle due tele firmate dovrebbe essere assegnata anche una Santa Agnese passata tempo fa sul mercato antiquariale napoletano, la Susanna ed vecchioni (fig.3) della raccolta Pellegrini di Cosenza e soprattutto il Loth e le figlie (fig. 4) di collezione Rizzo.

Il tema di Lot e le figlie permette di rappresentare una scena nella quale giovani fanciulle discinte concupiscono l’anziano genitore, facendolo ubriacare, ma soprattutto mostrandogli le grazie dei loro corpi acerbi.

L’iconografia ebbe straordinario successo a Napoli, dove numerosa era una clientela borghese, che amava adornare i salotti delle proprie case con soggetti biblici o devozionale, ma nei quali fossero presenti sante od eroine dalle forme ben acconce e generosamente esposte.

Negli inventari napoletani si contano centinaia di quadri con questo soggetto e molti ci sono pervenuti. Il Beltrano si è soffermato più volte sul tema, anche se alcuni dipinti in passato a lui attribuiti, vanno espunti e collocati nel catalogo di altri artisti.

Lot è un Patriarca della Bibbia, nipote di Abramo, figlio di suo fratello Aran e secondo il racconto biblico, egli seguì suo zio nella marcia fino alla terra promessa (Genesi 11, 27 -31); ma quando le loro greggi divennero così numerose da non poter più pascolare insieme, decisero di separarsi.

Loth scelse come suo territorio la valle del Giordano e la zona intorno al Mar Morto, mentre Abramo andò nella direzione opposta (Genesi 13).

In seguito, stabilitosi a Sodoma, venne rapito quando la città fu saccheggiata nel corso di una guerra; ma Abramo, venutolo a sapere, insieme ai suoi servi inseguì i razziatori, li sconfisse e liberò il nipote (Genesi 14).

Ritornando al dipinto di collezione Rizzo (fig.4) bisogna sottolineare la bella impaginazione della composizione, ariosa e franca, aggiustata e gaia nel colorito, il fraseggio fresco ed elegante ed un preciso riferimento alle fascinazioni del Cavallino.

La tela fissa il momento in cui Loth viene sedotto dalle sue giovani figlie. Il vegliardo ha un aspetto tranquillo e di fiduciosa attesa, mentre le figlie, dal volto dolcissimo e di una complicità intrigante, bramano a soddisfare ogni più recondito desiderio e pulsione dell’anziano genitore.

I panneggi delle vesti sono eseguiti con tecnica raffinata e ricercatezza nella resa cromatica.

Sullo sfondo uno scorcio di antiche architetture dalla forte carica espressiva, che evoca città lontane e misteriose.

Favola biblica dalla forte carica lirica, questo dipinto illustra egregiamente un pittore in atto di raddolcire la sua cifra stilistica, non insensibile alla languida lezione del Cavallino entro cadenze pacatamente sensuali.

Alcuni dettagli appaiono ripresi dall’autore del dipinto in questione, che appare pronto a caricare i toni e le espressioni, secondo un marchio connotativo, che parte indubbiamente da Vitale e prosegue fino a Marullo.

L’edificio sulla destra per le irreali lumeggiature in luce diurna appare come una pura citazione, in riferimento alla cultura figurativa di Francois De Nomè. L’opera trova collocazione alla metà del Seicento.

La Susanna ed vecchioni (fig.3) della raccolta Pellegrini di Cosenza fu da me illustrata nel catalogo della collezione che pubblicai nel 1998.

Riporto parzialmente ciò che scrissi all’epoca: “Il quadro ispirato ad un’iconografia cara a quasi tutti i pittori del Seicento napoletano, che si sono cimentati su questo soggetto, è trattato con una cura diligente nell’espressione dei volti dei personaggi: dai due vecchioni, in cui è lampante la libido repressa e la sfrenata bramosia di peccato, alla casta Susanna, da un lato adombrata per le insistenti attenzioni senili, ma che tuttavia non sa nascondere un’inconscia accondiscendenza a delle profferte così sfacciate.

Il tutto immerso in un’atmosfera resa surreale dalla presenza sullo sfondo di un’architettura fantastica alla De Nomè, arricchita da brocche preziose e vesti eleganti di damasco, curate meticolosamente nell’aspetto cromatico.

Il pennello del pittore ha indugiato voluttuoso sull’incarnato della donna nuda dalle forme perfette e dalla prorompente bellezza mediterranea, regalandoci un brivido d malizia indimenticabile.

I seni della Susanna sono di materia carnosa, opulenta, traslucida, sono eterni, fuori dal tempo e dallo spazio, non si deformano, né avvizziscono, archetipo femminile della femminile bellezza.

Simboleggiano il porto sicuro cui ognuno anela di fermarsi a riposare per sempre, preziosi come una boccetta di rare essenze, maestosi, ma nello stesso tempo fragili, come se costituiti da sottile cristallo, che a rompersi si disperdono come polvere di talco.

Da considerare attentamente l’ipotesi di Leone De Castris che condividiamo pienamente, il quale oltre a riscontrare tangenze con Filippo Vitale tardo, il giovane Pacecco, Onofrio Palumbo e Niccolò De Simone, ritiene che l’autore possa essere una personalità attiva a Napoli negli anni ’30 – ’40 o forse appena oltre, che potrebbe identificarsi con Gerolamo De Magistro. (In seguito identificato attraverso documenti da De Vito per Gerolamo Dello Mastro).


Lo studioso ci confidò di aver scoperto una sua terza opera firmata per esteso e di averla collegata a numerose altre che da tempo raccoglie e che denotano la stessa mano.

Tali dipinti fanno capo ad uno splendido Salomone che adora gli idoli, già in asta a New York nel 1981 e posseggono tutti uno sfondo architettonico alla De Nomè o alla Codazzi, una cura meticolosa nella definizione dei panneggi delle vesti, spesso di damasco, la presenza di oggetti di argenteria o brocche preziose, mentre i visi delle donne, dolcissimi, hanno degli ovali caratteristici, lo stesso tipo di costruzione del volto e la stessa boccuccia ben definita nelle labbra che caratterizza la nostra casta Susanna.

26/3/2017
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