Ma il tempo della bandana è scaduto
di Vittorio Del Tufo
(da: il Mattino del 20.6.2016)
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Luigi De Magistris sul podio non è salito da solo. Accanto a lui c’è il fantasma dell’astensionismo, ci sono i cittadini, non meno
napoletanos degli altri, rimasti a casa.
Quelli che hanno scelto il grido muto della diserzione civile.
È un plebiscito in termini percentuali, ma il plebiscito di una comunità ristretta quello che ha spinto Dema, per la seconda volta in cinque anni, davanti alla soglia di Palazzo San Giacomo.
Il sindaco uscente stravince ma perde per strada, rispetto al 2011, un botto di voti in termini numerici, di voti vivi, evaporati nel grande magma della disaffezione e dello scontento civile.
In tantissimi, nel giorno della scelta, hanno scelto di restare muti. Il loro silenzio è assordante, talmente rumoroso che De Magistris non potrà non tenerne conto.
Di solito la prima frase del vincitore è: sarò il sindaco di tutti. Essere il sindaco di tutti, per De Magistris, significa per prima cosa recuperare il rapporto con questa città altra, che insieme ha detto no sia al sindaco uscente che alla politica.
Ecco un buon quesito per l’ex pm: come si diventa, ora che gli avversari sono stati annientati, davvero il sindaco di tutti?
Riattaccando i cocci, per prima cosa.
La radicalizzazione dell’offerta politica, vero mantra del De Magistris a caccia di consensi, del Dema per così dire con la bandana, non aiuta. Perché spacca, isola e deprime la città, nell’attimo stesso in cui si propone di infiammarla.
Lo strato di ghiaccio che separa i cittadini dalle istituzioni, e dalle forme tradizionali di intermediazione politica, è sempre più spesso, e il trionfo dell’astensionismo sta lì a dimostrarlo.
La vera sfida del nuovo sindaco, dopo i comizi incendiari che lo hanno accompagnato al successo, è ora quella di ridurre questo strato di ghiaccio; di lavorare per unire, non per spaccare.
Va da sé che è anche, e soprattutto, nei confronti delle altre istituzioni che andrebbe cambiato registro. C’è un tempo per la bandana e un tempo per il dialogo.
C’è da augurarsi che De Magistris colga questa occasione e capisca, proprio in virtù del consenso ottenuto, e che nessuno può mettere in discussione, che non è il capo di un popolo in guerra, lui che la guerra l’ha vinta, ma il sindaco di una città normale, un sindaco che ha il diritto ma anche il dovere di rappresentare la comunità in tutte le sedi dove si prendono le decisioni che
contano; di sedersi a tutti i tavoli, insomma, anziché arroccarsi nella mitologia dell’uno contro tutti, del «come sono rivoluzionario io».
Per ora, almeno stando alle prime dichiarazioni rese nell’immediatezza della vittoria, non sembra che De Magistris abbia intenzione di rinunciare al totem della «rivoluzione governando».
Una rivoluzione che, a suo avviso, sarebbe l’unico «fatto politico significativo» di questa tornata elettorale, qualcosa che andrebbe ben oltre il mero dato elettorale, travalicandolo.
E allora torniamo alla domanda di partenza. Cosa significa, oggi, per l’ex pm, essere davvero il sindaco di tutti i napoletani?
Con una maggioranza schiacciante in termini percentuali, ma non certo in termini numerici rispetto alla grande platea degli elettori, De Magistris prende per la seconda volta in mano una città orfana.
Orfana di politica, orfana di partiti, orfana di progetti e di idee per il futuro. Il voto di ieri ha segnato l’azzeramento simbolico di uno spazio politico in cui è transitata la grande tradizione del pensiero riformista e sociale.
Il Pd è esploso come una mina, in mille frammenti, asfaltando le ambizioni non solo di chi ha cercato di strappare a De Magistris la poltrona di sindaco ma anche di chi si è seduto sulla sponda del fiume per veder passare i cadaveri dei propri (ex) compagni.
Uno spettacolo di veleni e rancori che condanna tutti, nessuno escluso, all’irrilevanza politica, forse per molto tempo.
Anche il centrodestra è evaporato in una guerra fredda tra piccoli satrapi che si sono contesi i resti di una torta minuscola, mentre il consenso volava via o sceglieva le sponde dell’antipolitica.
Lettieri, dopo essersi battuto come un ariete, ma in splendida solitudine, ha dovuto dire addio per la seconda volta al sogno di diventare sindaco, e difficilmente accetterà (per la seconda volta) di guidare, da sconfitto, l’opposizione di centrodestra in consiglio comunale.
È in questo deserto - di politica e di vera opposizione - che De Magistris conclude la sua cavalcata vittoriosa.
Ora che ha saldamente in mano le redini di una città orfana di politica, sarebbe auspicabile che facesse buon uso del potere che i napoletani gli hanno (ri)consegnato.
Dopo una campagna elettorale velenosa, fondata su disconoscimento e sulla delegittimazione degli avversari, dovrebbe preoccuparsi, proprio perché ha stravinto, di riconoscere e legittimare chi ha perso, cioè l’opposizione, in qualunque forma prenderà corpo nel nuovo Consiglio e in città.
Guai se commettesse l’errore di occupare, con le sue truppe arancioni, ogni spazio possibile. Ecco cosa significa essere sindaco di tutti: riattaccare i cocci e aiutare Napoli a ripartire.
In una città disamorata della politica, disillusa e stanca, dove solo un cittadino su tre è andato a votare, sarebbe già tanta roba.