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Perché una bandiera non cambia una città
di Vittorio Del Tufo
Le lancette corrono, il voto a Napoli si avvicina e il Pd è nel guado. Nulla di nuovo, è un film già visto altre volte. Con un finale ancora da scrivere, però.

Stretti a tenaglia tra un Bassolino che invoca le primarie – maledette e subito – e la mancanza di candi-dature altrettanto forti e autorevoli per la guida della città, i Democrat annaspano e - deja vu - prendono tempo.

Aspettano che Renzi batta un colpo e nel frattempo s’industriano a pescare altre carte dal mazzo, per evitare di macinare nei vecchi, per quanto autorevolissimi, mulini.
Così spunta, tra gli altri, il presidente della fondazione Polis Paolo Siani, pediatra, fratello di Giancarlo Siani, il giornalista del Mattino ucciso dalla camorra.

Volto nuovo e pulito, testimonianza esemplare di passione civile e impegno sociale, da decenni impegnato nella lotta per la le-galità. Già sondato dal partito, Siani ha preso alcuni giorni per riflettere. Immaginiamo, in queste ore, il suo travaglio e le sue perplessità.

Assumere il governo della città è una sfida da far tremare le vene e i polsi. Spendere il proprio nome e il proprio volto per la le-galità a tutti i livelli è cosa diversa dal disporre degli strumenti per governare la complicatissima macchina amministrativa della città.

Immaginiamo che queste controindicazioni siano ben chiare a Siani. Dubitiamo, invece, che siano altrettanto chiare ai vertici del Pd locale.

Certo il tempo stringe. Ed è ovvio che il Pd napoletano non può restare immobile per sempre, in attesa di eventi che non si veri-ficano, incapace di compiere un passo, di fare una mossa, eternamente in surplace e alla finestra ad aspettare che i capi del Nazareno sbroglino la matassa.

Però abbiamo il fondato timore che questa pesca a strascico non sia la soluzione migliore. Per due motivi. Innanzitutto essa è la spia di un malessere e di un fallimento: il fallimento della politica e di una generazione di aspiranti fenomeni, che nelle sfide che contavano e in quelle che contano – la guida della Regione, il Comune della terza città d’Italia - sono rimpiccioliti fino quasi a scomparire, confinati al ruolo di comparse.

Anche qui nulla di nuovo. È chiaro che non staremmo qui a parlare di Bassolino (sì, no, forse) se il Pd fosse riuscito a costruire, negli ultimi cinque anni, un’alternativa convincente a De Magistris e a selezionare una nuova classe dirigente.

Ma l’altro motivo, ben più importante, per il quale consideriamo sbagliato il metodo della pesca a strascico è perché tale metodo poggia su un colossale equivoco. Sull’idea, cioè, che estrarre un coniglio, per quanto prestigioso, dal cilindro e lanciarlo all’ultimo momento nella mischia, assegnandogli le chiavi della città, quasi fosse un unto del Signore, conduca alla salvezza dell’anima e, soprattutto, al buon governo del territorio.

È un metodo che rischia di replicare anche a Napoli esperienze che altrove, a cominciare da Roma, si sono rivelate fallimentari. Non è un equivoco di poco conto, perché attiene al rapporto tra i partiti e la società civile.

Che cosa chiede la città alla sua rappresentanza politica e istituzionale? Di far funzionare la macchina comunale, depurandola dalle incrostazioni e dalle sacche di parassitismo; di liberare le strade dai rifiuti, di potenziare i trasporti, di far marciare i servizi, di smantellare i baracconi improduttivi, di far funzionare il corpo dei vigili, di stanare i fannulloni, di proiettare la città verso un’internazionalizzazione che reclama e merita perché è nelle sue corde e - essa sì - nel suo Dna.

Si ritiene davvero che basti una candidatura di bandiera, di immagine, di testimonianza, per soddisfare queste esigenze? È necessario che la politica ripensi al suo rapporto con la cosiddetta società civile, che non è un totem ma una risorsa preziosa a patto che riesca a innervare di sé i partiti e le rappresentanze politiche.

A infiltrare i partiti, non esserne infiltrata ai fini di una meccanica cooptazione. Riavvicinare le energie migliori (della cultura, delle professioni) alla politica, al bene pubblico, all’interesse collettivo è una condizione imprescindibile per recuperare quell’equilibrio tra partiti e società civile la cui rottura è stata foriera di molti disfacimenti, e di una sempre più evidente disaffe-zione dei cittadini alla politica.

È un percorso virtuoso senza il quale, come ha segnalato più volte Biagio De Giovanni su questo giornale, la stessa democrazia è destinata a indebolirsi dalle fondamenta.

Ma un conto è la testimonianza civile, altra cosa è il governo della città, che richiede competenze amministrative e capacità an-che manageriali. A questo doppio profilo, autorevolezza morale e doti manageriali riconosciute e visibili, va ricondotto, ben al di là dei populismi e dei salti nel buio, il buon governo di una città come Napoli, affollata di emergenze.

Cinque anni di latitanza, da parte del partito che esprime il governo del Paese, non possono essere risolti né liquidati pescando una carta dal mazzo e attribuendovi, dopo tanti sfracelli, una funzione salvifica.
14/10/2015
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